
Quest’oggi ho fatto un sogno. Svegliato, ho deciso di scrivere, a getto, come a flusso di coscienza, ciò che ricordavo del sogno. In tutti i particolari, da quelli esterni, materiali, e sconosciuti all’anima, a quelli interni, vivi dentro, Miei. Una frase dopo l’altra, seguendo l’ordine con cui la mia mente faceva riaffiorare le impressioni. Ci sono lacune, parti della storia onirica perdute per sempre nei meandri della mia testa, che non recupererò più. Ma quello che ho impresso su carta, nonostante sia minima parte di tutto quello che ho visto, basterà a farmi ricordare, ogni volta che vorrò, il sogno, e tutto ciò che n’è scaturito. Un’esplosione di sentimenti, che non riuscirei in nessun modo a trasmettervi, ma che voglio ugualmente condividere, per le tre (e tre di numero) persone che possono potenzialmente leggerlo. Buona visione!
Roma: una città incantata, da favola. C’è un muro, bianco alto. A un lato del muro ci sono i monti Tiburtini, dall’altro lato Piramide. Il tutto in poco meno di cento metri. Vagavo per Roma. In compagnia. C’è una macchina della polizia che passa. Folla per la strada. Una signora, forse ottantenne, sorridente, si mette in mezzo alla strada, impedendo alla volante di passare. Poi altre persone occupano la strada a fermare la macchina, e i poliziotti suonano il clacson, avanzano a poco a poco, intimidendo quella folla, facendosi largo con imprecazioni, e buffi di clacson, e ruggiti del motore, e riescono a sgusciare da quel sentiero di euforia collettiva, di carnevale fiabesco. C’è un bar. Chiedo informazione al barista, riguardo al modo per arrivare dalla fermata dei monti Tiburtini fin lì. Non ricordavo come c’ero arrivato. Ho una cartina, ma non me lo sa dire. È notte. Poi c’è un gruppo di ragazze. Io sono simpatico, piaccio forse, sono estroverso e brillante. Ricordo una ragazza, tra le tante, forse 16 anni, esile, minutissima. Più soffice della neve. Sembrava non esistere. A piedi nudi, ma non per povertà; scalza, sembrava figlia di un parto avvenuto troppo in fretta, che l’ha lasciata grande troppo presto. Le sue dita dei piedi si muovevano ondeggiando a velocità assurda, ed erano dita piccolissime, insignificanti, quasi a sparire; sembrava ricolma d’aria, non di muscoli, ossa, e sangue; e lieve.
Io. E poi vidi lei. La donna della mia vita. Esile anche lei, bassa, bionda, sembrava molto più piccola di me. Ma non l’ho mai vista in faccia. In tutto quel tempo passato insieme, non ho veduto il suo volto. E udito il suo nome. Indossava un maglione rosso. Facciamo compagnia. E’ subito bellissima, e glielo dico. E poi di nuovo. L’abbraccio, e poi ancora, e ancora. Mille abbracci, e altrettanti baci, ci scambiammo per saluto, con naturalezza, come due appena incontrati si danno la mano per fare presentazione. Ma noi eravamo diversi, quella sera. E insieme saremmo stati diversi tutta la vita. Ma diversi di una connotazione non umana. Era amore quello che eravamo. E i cento baci erano il nostro metro di giudizio. Una stretta di mano, come presentazione, tra la gente qualsiasi (ma non del popolo di quella sera; quello era un altro popolo, fatto di pazzi, e buffoni, e stravolgimento della normalità) equivaleva a cento abbracci, la nostra presentazione, che subito svaporò nel tempo sembrando acquistare cento anni, in pochi secondi; C’eravamo appena conosciuti, e già la conoscevo da sempre. E a lei sta bene. Ma sono abbracci di quelli che ti aspetteresti da un padre, non da un ragazzo. Ecco, la parola "mentore", è quella che mi è saltata in testa. La farò crescere sotto la mia protezione, come fosse mia figlia, questo farò. I miei errori, tutti quanti, lei non deve farli. Avrei dato la vita per lei, in quel momento.
E mi guardo allo specchio, mentre l’abbraccio. E sono IO. Ho una borsa con me, con il beauty case, e penso subito ai preservativi, riposti lì dentro. Andiamo a casa sua. Ci baciamo. E’ una casa vecchia, da quel che ricordo. Marmo, lungo le scale, di quel marmo vecchio, che ne ha di cose da dire. E un poggia mano nero, invecchiato o vecchio per forza, e maioliche smaltate, vecchie anch’esse, ricordavano a chi le guardava la beffa del tempo. Ma non per noi due. Noi due galleggiavamo sopra il tempo, e lo spazio, e la materia, nutriti solo d’amore. Le nostre mani esistevano unicamente per essere unite, abbracciate insieme.
Entriamo nel letto, già nudi. Ci baciamo ancora. E poi ci lecchiamo, con dolcezza. Lei è a suo agio. Come l’avesse fatto mille volte. Aveva una pelle candida. Mi sento impacciato. A un certo punto, subito dopo i baci, andiamo via. Sono io ad andare via, forse, non ricordo, sapendo di aver lasciato qualcosa da completare. E sono per Roma, sempre per la stessa zona. Forse è allora che vado al bar a chiedere. Tornando, incontro le amiche della mia Lei, dall’altra parte della strada. Mi guardano, e allungano il passo senza salutarmi. E corro da lei, tornando. La vedo, per strada, con in mano tante, tantissime banconote da cinquanta euro. Arrotolate, due rotoli. Uno lo dà a me, uno lo tiene lei. Mi parla di una rapina, di un ladro. Ma non capisco. Noi, e la città stessa, siamo ebbri di pazzia, e d’amore, e di gioia. Io sono felice. La mia Donna, Lei è superlativa. Si vive attimo per attimo, sempre pronti a lasciarci, ma con la sicurezza che tutto sarà eterno, che non ci divideremo mai, perché non ci divideremo mai, lo so. Uniti, anche divisi.
A un tratto la vedo in una macchina, o comunque in un luogo stretto, chiuso. Si avvicina un uomo, lei sembrava non sentirsi bene. I due parlano, ed io li guardo. Poi mi avvicino, Le vedo il braccio, stanco di un sudore di morte. Le porgo la mano. -Andiamo amore- dico. Lei venne. Subito, rapita solo da me. Vogliamo tornare a casa sua. C’è un muro da scavalcare. Vado avanti io, e dico che l’avrei aiutata. Mentre salgo (e non era la prima volta che lo facevo) il muro, da rosso, con un lieve gradino su cui appoggiare il piede a 50 cm da terra, diventa più basso. E non è più muro. Sopra ci sono una serie di oggetti, di suppellettili. Poi un altro muro, 50 cm più alto del precedente. Ma vedo che Lei sta scavalcando da un’altra parte. Io ce l’ho fatta. Ed anche lei, ancor prima di me. Da sopra il muro si può vedere la Sua casa. Un corridoio, che corre parallelo al muro, con una libreria, bianca, scivola lungo tutta la parete sinistra. Scendendo vedo il beauty-case. -C'è qualcosa da completare- mi dico. Arrivo a terra,e c’è anche lei.
Sento un suono, in lontananza. Ma è un suono reale, non ha niente a che fare con il sogno, che da vorticosa realtà fiabesca, si attenua, comincia a svanire, a regalare gli ultimi momenti di una storia che finisce. Risveglio: gioia, languore dolcissimo, sborniatura celeste, fantastica, irreale, e senso di aver trovato, e subito perduto, la felicità. E la consapevolezza di non aver completato qualcosa. Un sogno incredibile. Quella donna, che non ho mai visto in volto, di cui non conosco il nome, è la donna della mia vita. Esistesse davvero, passerei la vita a cercarla, per ritrovarla, come nel mio sogno. Ma il risveglio ha anche ridato vita ad antichi umori sopiti, e ho rivisto, per un attimo, il corpo, candido anch’esso (impreziosito da calze autoreggenti bianche, le stesse di quella sera che è diventata mattina con noi, un po’ di tempo fa) della Mia Ale.
È mamma. Mi manda il codice per il bancoposta. Che scemo! Ero stato io, a dirle, la mattina, di farmelo arrivare al pomeriggio. E mi ha dato retta, come fa sempre. Con quel tempismo da principiante, con quella puntualità nell’arrivare sempre un attimo prima, o un attimo dopo. Rimango un minuto disteso sul letto, a pensare alla magia appena vissuta. Sono indeciso. Non so se prendere il telefono, e leggere il messaggio, o lasciarmi cullare ancora da quel sogno, e ricordare anche gli eventi minimi, farmi coccolare ancora un po’ dalla mia Lei, non ancora conosciuta e già perduta, per sempre. Vorrei tornare a dormire, e ritrovarla, così come vorrei ritrovarla la notte dopo, e quella dopo ancora. Come due innamorati veri, che si baciano all’ombra di un tramonto, e il sole scandisce i giri che mancano prima di rivedersi, e aspettare, trepidante. Ormai sono sveglio. Anche volendo, non posso ritrovarla. Ma ci provo lo stesso. Non riuscendoci. Mi alzo, allora. Svogliato, senza neanche più la voglia di incontrarlo di nuovo, quel fantasma della mia mente. Non esiste più. È esistita, oh si, più vera del Vero più vero, ma solo per pochi attimi, nella mia testa. Vado in cucina. -Non è nella mia testa, ma è fuori queste mura, che devo trovarla, la Mia donna- sento provenire dalla mia testa. Convinto che, come in quella visione, sarà probabilmente impossibile. Ma lì fuori deve esistere, tanto più che sogni non contano. Prendo il computer, e decido di scrivere questa, la Mia storia, e far vivere Lei, almeno su carta, almeno sotto forma di bit anonimi sempre uguali; di riportare il Mio Amore, e riassaporarlo in futuro, uno splendore innominabile senza eguali.Per non far morire una Bellezza che non è mai esistita. Ed eccomi. Io ti cerco. Non smetto di cercarti. Un giorno ti troverò.
In realtà non so se mi amava. Ma era devota. E bambina, innocente, di quell’innocenza che trasmette chi non sa. E chi non sa non vuole. E lei solo me voleva, e la nostra città, che viveva per noi, danzava allo stesso ritmo della nostra storia d’amore di una sera. Nello stesso tempo donna immensa , e minuta. Leggera, come gli uccelli. Straripante di voglia di vita. Ma lieve. A volte sembrava semplicemente non esistere. Ed era bellissima. Di quelle bellezze da far trasalire il mare. Esisteva solo per me, ed io solo per lei. Il resto era più; il superfluo più irreale e comico mai visto. Una gothan city ambientata a disneyland, con tocchi tragici e surreali, da far impallidire Dalì e i suoi sogni da visionario. Buffonesca. E da sottofondo la notte, una notte calda, una notte d’incontri, di quelle che solo Roma può regalare. Che sogno! Da morirci dentro.
Spiegazione:
Ho chiesto a uno studente di psicologia cosa diavolo potesse significare, questo strano sogno.
Mi guarda perplesso, con ciglio turbato, di quella strana espressione degli uomini di scienza, e candido, mi domanda:
"ma Lei, l'aranciata, l'aveva pagata???"
Fine spiegazione